Roma, 9 gennaio 2024 – Per chi ha vissuto le vicende dell’Italsider di Bagnoli, fra gli anni ’80 e ’90, la storia dell’Ilva di Taranto sembra un déjà vu. Ironia della sorte, fu proprio la nascita dell’acciaieria tarantina a segnare l’atto di morte della fabbrica napoletana, in combinazione con quel sistema di "quote" fissato dalla Comunità europea che aveva decretato la fine della fabbrica flegrea, nel 1994. La verità è che l’acciaio di Stato è sempre stato il grande buco nero della politica industriale italiana. Fin dalla sua origine, nel 1904, con la legge per il Rinascimento di Napoli, fortemente voluta da Nitti, che segnò la nascita dell’Ilva.

Ma fin dall’origine furono molti a parlare di un colosso d’acciaio dai piedi di argilla. Anzi, più precisamente di "carta": quelle delle grandi speculazioni finanziarie che, soprattutto con la prima guerra mondiale, portarono al primo vero collasso dell’acciaio di Stato, preceduto da fallimenti, bancarotte e perfino la fuga all’estero di uno dei maggiori esponenti dell’Ilva, Max Bondi. Dopo la seconda guerra mondiale, nel 1959, fu il governo Tambroni e firmare l’atto di nascita dello stabilimento di Taranto.

Sono gli anni del miracolo economico, la domanda di acciaio è fortissima e in Italia tocca direttamente allo Stato, attraverso l’Iri ma anche la Cassa per il Mezzogiorno, trasformarsi in imprenditore. Nel 1960 a inaugurare Taranto c’è un pugliese doc, il presidente del Consiglio Aldo Moro. Eppure, proprio a ridosso degli anni ’70, quando lo stabilimento potrebbe marciare a pieno regime, l’economia rallenta e l’Europa scopre di avere un grande problema di "sovraproduzione": ci sono troppe acciaierie che cominciano ad accumulare miliardi di perdite. La Finsider, l’holding dell’Iri per l’acciaio, comincia a mettere in fila una serie di "piani di risanamento", tutti disattesi. Fino al grande spreco di Bagnoli, un maxi investimento di 100 miliardi delle vecchie lire deciso quando la fine della fabbrica era stata già segnata dallo stato di crisi del settore dichiarato da Bruxelles il 31 maggio 1980. Per l’Iri e la Finsider comincia una lenta agonia fino al 1988, quando la holding siderurgica pubblica viene messa in liquidazione e, dalle sue ceneri, rinasce il marchio Ilva.

Negli anni ’90, si apre la stagione della grande ritirata dello Stato imprenditore. Un percorso avviato dal governo Dini e perfezionato da Prodi con la vendita dell’Ilva al gruppo Riva. Ma l’operazione-rilancio trova subito sulla sua strada il grande tema dell’inquinamento. Attorno all’acciaieria si è sviluppata la città e il numero dei decessi per tumore registrati nella zona comincia a destare sospetti. Si arriva così al 2012 quando la magistratura tarantina dispone il sequestro della fabbrica per gravi violazioni ambientali. Vengono disposte le misure cautelari a carico dei vertici aziendali: tra questi anche Emilio Riva, presidente dell’Ilva Spa fino al maggio 2010 e il figlio e suo successore Nicola Riva. Nel gennaio 2013 viene arrestato anche Fabio Riva, fratello di Nicola e figlio di Emilio.

Comincia il lungo calvario giudiziario e la stagione delle amministrazioni straordinarie, con la nomina di cinque commissari. Fino al 2016, quando il governo decide di mettere di nuovo in vendita l’Ilva. Un processo che si concluderà solo l’anno dopo, quando l’allora ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda firma il decreto di assegnazione ad ArcelorMittal. Ma il rapporto fra il colosso indiano e il governo entra in crisi fra il 2019 e il 2020, nell’era dell’esecutivo giallo-rosso. Inizia un lungo tira e molla, con l’allora ministro dello Sviluppo, Luigi Di Maio, che mette in dubbio la regolarità della gara. Fino alla decisione di Arcelor, poi ritirata, di mollare tutto per il ritiro dello scudo penale.

Il resto è storia dei giorni nostri, con il ritorno del socio pubblico nel capitale dell’Ilva fino alla rottura dell’8 gennaio scorso a Palazzo Chigi sulle ipotesi di ricapitalizzazione dell’azienda. Il finale della storia è ancora tutto da scrivere. Con Arcelor che, ieri sera, ha fatto sapere di essere disposta a scendere in minoranza ma a condizione che il controllo resti condiviso. Si vedrà.

QOSHE - La maledizione ex Ilva: inquinamento, debiti e tribunali. L’acciaio di Stato è un buco nero - Antonio Troise
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La maledizione ex Ilva: inquinamento, debiti e tribunali. L’acciaio di Stato è un buco nero

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09.01.2024

Roma, 9 gennaio 2024 – Per chi ha vissuto le vicende dell’Italsider di Bagnoli, fra gli anni ’80 e ’90, la storia dell’Ilva di Taranto sembra un déjà vu. Ironia della sorte, fu proprio la nascita dell’acciaieria tarantina a segnare l’atto di morte della fabbrica napoletana, in combinazione con quel sistema di "quote" fissato dalla Comunità europea che aveva decretato la fine della fabbrica flegrea, nel 1994. La verità è che l’acciaio di Stato è sempre stato il grande buco nero della politica industriale italiana. Fin dalla sua origine, nel 1904, con la legge per il Rinascimento di Napoli, fortemente voluta da Nitti, che segnò la nascita dell’Ilva.

Ma fin dall’origine furono molti a parlare di un colosso d’acciaio dai piedi di argilla. Anzi, più precisamente di "carta": quelle delle grandi speculazioni finanziarie che, soprattutto con la prima guerra mondiale, portarono al primo vero collasso dell’acciaio di Stato, preceduto da fallimenti, bancarotte e perfino la fuga all’estero di uno dei maggiori esponenti........

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