Roma, 5 dicembre 2023 – “Here’s to you, Nicola and Bart / Rest forever here in our hearts / The last and final moment is yours / That agony is your triumph”: quattro versi ripetuti in crescendo, la voce calda di Joan Baez, la musica struggente di Ennio Morricone. Cantato alla fine del film di Giuliano Montaldo Sacco e Vanzetti (1971), il brano divenne un inno politico (“Vi onoriamo, Nicola e Bart, sarete per sempre nei nostri cuori”) e riportò alla ribalta, nel pieno delle rivolte giovanili in corso in mezzo mondo, la vicenda dei due anarchici italiani immigrati negli Stati Uniti, mandati ingiustamente alla sedia elettrica nel 1927. Negli anni della prigionia e del crudele e farsesco processo, si diceva e scriveva “Sacco e Vanzetti” come un’unica parola; era un’espressione sufficiente a indicare una visione del mondo, un moto di rifiuto verso l’ingiustizia e il sopruso, e aveva riempito le piazze nel Nuovo come nel Vecchio mondo, per non parlare delle petizioni, degli appelli (e degli attentati) che si erano moltiplicati.

Riunite così, nel motto Sacco-e-Vanzetti, le figure dei due anarchici si fondevano e le individualità sfumavano, eppure, nella realtà, erano ben marcate. Bartolomeo Vanzetti, piemontese di Villlafalletto, e Ferdinando Sacco, di Torremaggiore (Foggia), si erano conosciuti in viaggio, su un treno, diretti entrambi verso il Messico, buon rifugio per due “sovversivi” quali erano diventati sul suolo americano.

Era il 1917 e a forza di scioperi, scontri, attentati, mobilitazioni, attorno ai militanti rivoluzionari si stava stringendo il cerchio della repressione. In Messico per respirare, dunque, ma pronti a ripartire. E così fu. Troppo forte il richiamo della lotta, ma anche della famiglia, almeno per Sacco, divenuto ormai Nicola per affezione al nome falso usato in clandestinità: a Stoughton, poco lontano da Boston, aveva una moglie, Rosina, e un figlio, Dante. Bart, uomo nomade e spartano, senza una vera casa e spesso ospite di amici, per campare si comprò un carretto e si mise a vendere pesce.

Tornarono entrambi nel loro mondo: lavoro e lotta di classe senza quartiere, con l’anarchia nel cuore. Ma erano cuori sofferenti, i loro: Bart scriveva spesso alla famiglia giù in Italia, soprattutto al padre e alla sorella Luigina. Il mito dell’America, se mai c’era stato, ai suoi occhi si era subito infranto nel contatto con la realtà (e le futilità) del nuovo mondo: "Qui si sacrificano – aveva scritto alla sorella – per avere scarpe più fini e il cinematografo". Nicola, in attesa del secondo figlio, era altrettanto disilluso, e già pensava di tornare in Italia, coi soldi per il viaggio già messi da parte.

Poi arrivò l’arresto, alle 21,40 del 5 maggio 1920, a una fermata del tram; avevano delle armi in tasca, ma non c’entravano con le accuse di rapina e omicidio destinate a portarli sulla sedia elettrica, esito di un caso da manuale di odio razziale, pregiudizio politico, fallimento giudiziario.

Vanzetti in carcere studiò l’inglese, che non parlava bene, e lesse e scrisse molto: lettere, documenti politici, messaggi ai giudici, memoriali. Sacco, probabilmente, soffrì più di lui, col tormento della famiglia abbandonata e il pensiero della figlia Ines nata mentre lui era chiuso in cella.

Dopo la fine dei processi e il rifiuto dei vari ricorsi (tutti respinti dallo stesso giudice che aveva inflitto le condanne), Sacco reagì chiudendosi in se stesso: avviò uno sciopero della fame, che interruppe solo pochi giorni prima d’essere ucciso, e si oppose all’idea di Vanzetti di scrivere una "lettera non di grazia, ma di giustizia" al governatore dello stato del Massachusetts, come racconta Paolo Pasi nel suo libro Sacco e Vanzetti. La salvezza è altrove, appena uscito per Elèuthera (con i disegni di Fabio Santin), molto attento a definire i profili umani dei due anarchici. Nicola scrisse invece ai figli. Alla piccola Ines, sette anni, conosciuta durante gli incontri in carcere coi familiari: "D’estate ci saremmo seduti vicino a casa, all’ombra di una quercia, e avrei cominciato a insegnarti la vita, a leggere e scrivere..." E a Dante, diventato grande nei sette anni trascorsi dal padre in prigionia: "Mio caro figlio e compagno (…) Ricordati sempre, nel gioco della felicità, non prendere tutto per te, ma scendi un gradino e aiuta i deboli che chiedono soccorso, aiuta i perseguitati e le vittime perché sono i tuoi migliori amici; sono i compagni che combattono e cadono come tuo padre e Bartolo hanno combattuto".

Quanto a Vanzetti, consegnò ai giudici, nell’ultima udienza, la sua invettiva-testamento, quella che si chiude con un moto di orgoglio e dignità: "Ho sofferto per cose di cui sono colpevole. Sto soffrendo perché sono un anarchico, e davvero io sono un anarchico; ho sofferto perché sono un italiano, e davvero io sono un italiano. Se voi poteste giustiziarmi due volte, e se potessi rinascere altre due volte, vivrei di nuovo per fare quello che ho fatto già". Poco tempo prima, aveva espresso a un giornalista, Philip Stong, la sua dura sintesi di una vicenda, il caso Sacco-e-Vanzetti, che fece capire a molti come davvero gira il mondo (una lezione peraltro ancora attuale): "Oggi noi non siamo un fallimento. L’ultimo e definitivo istante ci appartiene. Questa agonia è il nostro trionfo".

“That agony is your triumph”, come avrebbe cantato Joan Baez.

QOSHE - Le ultime ore di Sacco e Vanzetti. Tutta l’umanità di Nicola & Bart - Lorenzo Guadagnucci
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Le ultime ore di Sacco e Vanzetti. Tutta l’umanità di Nicola & Bart

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06.12.2023

Roma, 5 dicembre 2023 – “Here’s to you, Nicola and Bart / Rest forever here in our hearts / The last and final moment is yours / That agony is your triumph”: quattro versi ripetuti in crescendo, la voce calda di Joan Baez, la musica struggente di Ennio Morricone. Cantato alla fine del film di Giuliano Montaldo Sacco e Vanzetti (1971), il brano divenne un inno politico (“Vi onoriamo, Nicola e Bart, sarete per sempre nei nostri cuori”) e riportò alla ribalta, nel pieno delle rivolte giovanili in corso in mezzo mondo, la vicenda dei due anarchici italiani immigrati negli Stati Uniti, mandati ingiustamente alla sedia elettrica nel 1927. Negli anni della prigionia e del crudele e farsesco processo, si diceva e scriveva “Sacco e Vanzetti” come un’unica parola; era un’espressione sufficiente a indicare una visione del mondo, un moto di rifiuto verso l’ingiustizia e il sopruso, e aveva riempito le piazze nel Nuovo come nel Vecchio mondo, per non parlare delle petizioni, degli appelli (e degli attentati) che si erano moltiplicati.

Riunite così, nel motto Sacco-e-Vanzetti, le figure dei due anarchici si fondevano e le individualità sfumavano, eppure, nella realtà, erano ben marcate. Bartolomeo Vanzetti, piemontese di Villlafalletto, e Ferdinando Sacco, di Torremaggiore (Foggia), si erano conosciuti in viaggio, su........

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