Visto che abbiamo parlato di cose ingombranti come il rapporto tra la giustizia e la politica, il mercato nero dell’informazione, la libertà di stampa, la separazione delle carriere, i diritti degli indagati, ma anche del sacrosanto diritto dell’opinione pubblica di conoscere cosa avviene (e chi sono i protagonisti della corruzione, delle storie di mafia che spesso hanno lambito il potere politico e macchiato la storia del nostro Paese), alla fine di questa breve conversazione con Maurizio De Lucia, procuratore della Repubblica di Palermo, ci siamo concessi informazioni e notizie più leggere sui nostri amici animali. È stato De Lucia, prima di chiudere la videochiamata, a chiedermi dei natali di “quel bel cane arrotolato sul divano” che sembrava voler ascoltare i nostri discorsi. È un Épagneul Breton, si chiama Tom. “Io ho un Labrador a cui sono molto affezionato, non potrei fare a meno di lui”, replica De Lucia.

D’altronde un po’ di leggerezza è necessaria. Nella sua lunga carriera di magistrato di cose pesanti e di brutture ne ha viste tante; ha avuto poco tempo per rilassarsi con i suoi amici a quattro zampe, impegnato come era con i lupi di Cosa Nostra o con i voraci big degli appalti in mano alla criminalità. Con lui non abbiamo parlato di mafia, bensì di giornalismo e informazione giudiziaria; ma prima di approdare a questi temi è bene che si conosca chi è il procuratore di Palermo.

Maurizio De Lucia è entrato in magistratura nel 1990. La sua prima sede è stata la Procura del Tribunale di Palermo, dove è arrivato nel 1991 e dove ha vissuto il terribile periodo delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Dal 1998 ha fatto parte della Direzione Distrettuale Antimafia, maturando una profonda comprensione del fenomeno mafioso e dei suoi pervasivi intrecci con la società. Ha condotto alcune tra le principali inchieste della procura di Palermo di quegli anni: dalla cosiddetta Tangentopoli siciliana al processo sulle infiltrazioni di Cosa Nostra nel mondo degli appalti; ha partecipato all’annientamento della rete dei favoreggiatori di Bernardo Provenzano e all’arresto dello stesso capo di Cosa Nostra.

Dal giugno 2009 al luglio 2017 è stato sostituto procuratore nazionale antimafia, dove ha continuato a occuparsi del collegamento investigativo con le DDA di Palermo e Caltanissetta e della gestione dei detenuti sottoposti al regime di cui all’art 41 bis. Dal 2010 e fino al 2017 è stato componente della commissione centrale per la gestione dei programmi di protezione di collaboratori di giustizia e testimoni, e dal luglio del 2017 è stato il procuratore della Repubblica di Messina. Poi è approdato nella sede più calda, il vertice della Procura della Repubblica di Palermo.

Voglio rassicurarla, dottor De Lucia: non parleremo di mafia né tanto meno di inchieste in corso. Vorrei invece tornare alle osservazioni critiche sui giornalisti che ha fatto di recente in occasione della cattura di Matteo Messina Denaro. Che cosa non le è piaciuto del comportamento della stampa?

Osservazioni critiche sui giornalisti? No, non direi, nessuna ostilità, nessun pregiudizio. C’è un grande rispetto da parte mia e da parte dei miei sostituti procuratori per il lavoro dei giornalisti. Posso dire soltanto che è cambiato il modo di lavorare dei giornalisti, un modo che mi suscita qualche perplessità. Le faccio un esempio: io ho collaborato anche alla cattura di Bernardo Provenzano, ma non c’erano tutte queste tensioni verso le notizie come è stato nel caso della cattura di Matteo Messina Denaro. C’era l’interesse dei giornalisti ad avere la notizia, i retroscena, ma non c’erano pressioni sui magistrati così intense come è avvenuto con l’arresto di Messina Denaro. Potrei sbagliarmi, ma credo che il cambiamento ci sia da quando ci sono i social. Prima non c’era questa gara ad arrivare primi, a ricercare in modo spasmodico lo scoop, e questo, le dirò, non facilita il lavoro degli inquirenti. È questo che ho sottolineato a Bologna qualche mese fa. Nulla di più.

Quando lavoravo come cronista giudiziario durante l’inchiesta Mani pulite ricordo che anche allora c’era una gara quotidiana tra le testate giornalistiche per lo scoop del giorno. Tra le agenzie la gara era a chi pubblicava per prima la notizia di un arresto o di un avviso di garanzia. Ora si sono aggiunti i social. Ma a proposito di rapporti con la stampa, non pensa che una comunicazione più trasparente da parte delle procure o dei tribunali eviterebbe questa pressione sulle fonti di informazione?

Non credo proprio che le cose andrebbero in quella direzione. Prenda la riforma Cartabia, che ha introdotto delle regole in materia di comunicazione, affidando esclusivamente al procuratore della Repubblica la responsabilità di autorizzare comunicati stampa o fare conferenze stampa sulle iniziative giudiziarie. Io credo che questo modo di ingessare la comunicazione sia errato e controproducente. Le dirò di più: questo ingessamento, oltre a non considerare che le procure possono solo comunicare le tesi dell’accusa, crea il mercato nero dell’informazione, e questo non mi pare un buon risultato se si vuole mettere mano alla trasparenza. Questo è un tema molto delicato e difficile da gestire, perché bisogna conciliare la presunzione d’innocenza degli indagati con l’esigenza dello Stato di garantire la sicurezza anche attraverso l’azione penale e la sua segretezza, e con l’ulteriore esigenza dell’opinione pubblica, che ha il diritto di sapere cosa accade nella società. Se non si conciliano queste tre condizioni il risultato, lo ripeto, sarà uno sviluppo del mercato clandestino delle notizie, nel quale ciascun giornalista cercherà – e purtroppo troverà – fonti anonime che gli consentano di approfondirle.

Nelle proposte del ministro Carlo Nordio c’è secondo lei una limitazione della libertà di stampa a proposito delle intercettazioni?

Questa storia delle intercettazioni e della violazione del segreto istruttorio la sento da anni, da quando sono entrato in magistratura. Come le dicevo la chiave della questione è conciliare la presunzione di innocenza degli imputati con il diritto dell’opinione pubblica, prima ancora della stampa, di sapere cosa avviene nella società civile e politica. Io invece metterei in evidenza una differenza importante: se le indagini sono segretate il problema non si pone. Se invece, come spesso accade, le intercettazioni sono state depositate anche per tutelare i diritti della difesa, allora il problema della violazione del segreto istruttorio non esiste, mentre esiste il diritto dei cittadini di essere informati su cosa accade in inchieste giudiziarie che spesso hanno risvolti importanti dal punto di vista sociale. E a questo proposito le devo aggiungere che io non ricordo di atti segreti divulgati dalla stampa, certamente non dopo le riforme c.d. Orlando in materie di archivio riservato delle intercettazioni.

Ai tempi di Tangentopoli, i giornalisti giudiziari venivano accusati di essere i portavoce della Procura. Lei che cosa ne pensa?

Penso che anche il mondo del giornalismo sia cambiato dagli anni Novanta e che oggi i giornalisti curino con grande approfondimento la ricerca delle notizie, di certo non guardando solo alle Procure.

Mi par di capire dunque che per lei i problemi della giustizia sono altri, o sbaglio? Ci dica il più importante.

Non ho dubbi: il problema della giustizia oggi in Italia è quello delle risorse e delle strutture. Uomini e strutture edilizie. Se non superiamo questo deficit sarà difficile accelerare la macchina della giustizia. Vuole un esempio? Io per anni ho fatto il procuratore di Messina. In quella zona ci sono tre tribunali, due sono a 30 km uno dall’altro. Con questa dispersione è difficile se non impossibile garantire l’efficienza necessaria di cui ha bisogno la società civile.

L’ex procuratore di Torino Armando Spataro, in un’intervista che gli ho fatto mesi fa sulla nostra testata, ha detto la stessa cosa. Spataro osservava inoltre che nei piani di riforma del ministro della Giustizia di questo tema neppure se ne parla.

Credo proprio che non abbia torto, Armando Spataro. La riforma delle circoscrizioni giudiziarie è un passo importantissimo, ma devono essere razionalizzate, e certo non guardando a riaprire ovunque piccoli tribunali che non potrebbero funzionare.

Prima di chiudere questa nostra conversazione le vorrei chiedere come vede il rapporto tra la giustizia e la politica. Un rapporto assai conflittuale che si trascina da anni.

Il conflitto tra politica e giustizia esiste in tutti i Paesi democratici, basti guardare oggi agli U.S.A. o alla Francia. Soltanto nei Paesi totalitari non c’è conflitto. Lì decide uno solo al comando. C’è da preoccuparsi, invece, quando si tocca la Costituzione.

A che cosa si riferisce?

Per esempio all’indipendenza dei pubblici ministeri. A mio parere è vitale difenderla. Tenga presente che in Francia, dove non esiste l’obbligatorietà dell’azione penale, guardano con interesse al nostro modello. Si dice che la separazione delle carriere non lede l’indipendenza dei PM; non è vero. Il PM dovrà pure rispondere a qualcuno, se si separano le carriere.

È inevitabile che alla fine debba rispondere all’esecutivo, cioè alla politica. Non è così?

Credo proprio di sì.

Un’ultima domanda davvero: cosa ne pensa della lettera spedita al Governo da quasi tutti i presidenti di Corte d’appello a proposito della prescrizione? Mi è sembrato di leggere tra le righe una forte drammatizzazione del problema.

Se il vertice della magistratura giudicante di tutto il Paese, magistrati maturi ed esperti, sente di segnalare il problema nei termini in cui lo ha fatto, direi che si può davvero pensare che il problema esiste.

Photo credits: antimafiaduemila.com

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Maurizio De Lucia: “La fretta del giornalismo complica il lavoro degli inquirenti”

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24.01.2024

Visto che abbiamo parlato di cose ingombranti come il rapporto tra la giustizia e la politica, il mercato nero dell’informazione, la libertà di stampa, la separazione delle carriere, i diritti degli indagati, ma anche del sacrosanto diritto dell’opinione pubblica di conoscere cosa avviene (e chi sono i protagonisti della corruzione, delle storie di mafia che spesso hanno lambito il potere politico e macchiato la storia del nostro Paese), alla fine di questa breve conversazione con Maurizio De Lucia, procuratore della Repubblica di Palermo, ci siamo concessi informazioni e notizie più leggere sui nostri amici animali. È stato De Lucia, prima di chiudere la videochiamata, a chiedermi dei natali di “quel bel cane arrotolato sul divano” che sembrava voler ascoltare i nostri discorsi. È un Épagneul Breton, si chiama Tom. “Io ho un Labrador a cui sono molto affezionato, non potrei fare a meno di lui”, replica De Lucia.

D’altronde un po’ di leggerezza è necessaria. Nella sua lunga carriera di magistrato di cose pesanti e di brutture ne ha viste tante; ha avuto poco tempo per rilassarsi con i suoi amici a quattro zampe, impegnato come era con i lupi di Cosa Nostra o con i voraci big degli appalti in mano alla criminalità. Con lui non abbiamo parlato di mafia, bensì di giornalismo e informazione giudiziaria; ma prima di approdare a questi temi è bene che si conosca chi è il procuratore di Palermo.

Maurizio De Lucia è entrato in magistratura nel 1990. La sua prima sede è stata la Procura del Tribunale di Palermo, dove è arrivato nel 1991 e dove ha vissuto il terribile periodo delle stragi di Capaci e via D’Amelio. Dal 1998 ha fatto parte della Direzione Distrettuale Antimafia, maturando una profonda comprensione del fenomeno mafioso e dei suoi pervasivi intrecci con la società. Ha condotto alcune tra le principali inchieste della procura di Palermo di quegli anni: dalla cosiddetta Tangentopoli siciliana al processo sulle infiltrazioni di Cosa Nostra nel mondo degli appalti; ha partecipato all’annientamento della rete dei favoreggiatori di Bernardo Provenzano e all’arresto dello stesso capo di Cosa Nostra.

Dal giugno 2009 al luglio 2017 è stato sostituto procuratore nazionale antimafia, dove ha continuato a occuparsi del collegamento investigativo con le DDA di Palermo e Caltanissetta e della gestione dei detenuti sottoposti al regime di cui all’art 41 bis. Dal 2010 e fino al 2017 è stato componente........

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