Don Gino Rigoldi davanti all’Istituto Penale per i Minorenni di Milano “Beccaria” (foto Ansa) @media only screen and (min-width: 501px) { .align_atf_banner{ float:left; } }

«Senza attività la gente diventa matta chiusa in cella per 22 ore»: tre giorni fa don Gino Rigoldi era al sit in sullo scalone del palazzo di Giustizia a Milano per tuonare contro la «terribile circolare» sulle chiusure dei reparti di media sicurezza e chiedere al Parlamento e al ministro Carlo Nordio di intervenire. Sono già 32 i suicidi registrati negli istituti penitenziari italiani dall’inizio dell’anno – «22 ore in cella tutti i giorni di tutta la settimana non si chiama sicurezza, si chiama tortura» – e ad animare il più instancabile dei preti di strada, si sa, non è spirito di denuncia, ma spirito santo. Lo stesso che per 50 anni lo ha portato a occuparsi degli affari del Padre suo (spesso anche in modo poco “ecclesiastico”), lontano da quello scalone, dietro le sbarre, tra i ragazzi del carcere minorile Beccaria.

Formalmente don Gino Rigoldi avrebbe rassegnato le dimissioni da cappellano e passato il testimone all’amico don Claudio Burgio, ma come si fa, a 84 anni, a smettere di far da madre, padre, prete, nonno a quegli avanzi di galera? Lo abbiamo scritto tante volte, i ragazzi brutti, sporchi, cattivi, diseredati, tossici sono sempre stati il chiodo di don Gino: a centinaia, usciti dal penitenziario, erano “passati” (e passano tuttora) per la cascina dove vive, centinaia di cinquantamila delinquenti da lui incontrati, accuditi, educati, alcuni anche adottati in mezzo secolo di attività. O meglio, di missione: missione per amore del prossimo e di Cristo, morto in Croce con tutti quei chiodi, come un delinquente. Mica si va in pensione da una cosa così.

Don Gino e gli antimperialisti con barba ed eskimo, «ma poi vengono in chiesa?»

«Io sono diventato prete un po’ tardi», ricorda a Tempi don Gino, che se a tredici anni lavorava già come operaio, a diciotto prendeva l’ingresso del seminario di Venegono con le pinze. «“Guarda, tu non sei adatto a fare il prete”, mi ripeteva il rettore. Finché mi mandò a fare il vicerettore al Collegio Arcivescovile di Varese De Filippi. E lì ho iniziato ad avere a che fare con loro, 120-130 ragazzi». Ragazzi di famiglie abbienti ma con un bisogno grosso così nel quale don Gino trovò finalmente tutte le ragioni che lo avrebbero portato, nel ‘67, all’ordinazione sacerdotale.

E così nel ‘71 approdò alla parrocchia di San Donato Milanese, nella Metanopoli di Enrico Mattei: «Lì i ragazzi abbondavano – continua don Gino – solo che erano tutti di sinistra e del Campo Antimperialista. Io volevo incontrarli: “C’è una bella gioventù che si muove, vediamo cosa abbiamo da dirci”, pensavo. Il parroco invece, che pure mi voleva bene, li vedeva con le barbe e l’eskimo a parlamentare e mi chiedeva preoccupato “ma questi poi ci vengono in chiesa?”. Io ero contento, la Curia, venendo a conoscenza di certi eventi organizzati in parrocchia con 400 persone un po’ meno, però mi pareva di poter fare di più. Cominciavano a girare le droghe, anfetamine, acidi, aumentavano i reati minorili. Allora il Beccaria nessuno sapeva cosa fosse: era appena diventato un carcere pubblico quando seppi che cercavano un cappellano».

Hai visto che Tempi? È ora di abbonarsi!

Angelo e la “chiavetta” di casa: «Mi apro una macchina e ci dormo dentro»

Era il 1972 e don Gino Rigoldi aveva 33 anni quando chiese e ottenne di essere destinato lì, dove passavano fino a 1.200 ragazzi l’anno, per lo più figli di immigrati dal Sud Italia. Angelo era uno di loro, «il giorno in cui io entrai al Beccaria lui stava uscendo: “E dove vai ora, a casa?”, gli chiesi dopo due chiacchiere. Lui aveva estratto una chiavetta per aprire la carne in scatola con aria ingenua, “mi apro una macchina e ci dormo dentro!”, aveva risposto. Ma che roba è questa, penso: il Beccaria mi aveva dato un appartamentino con un ingresso indipendente e così mi sembrò logico offrigli un posto letto. Un mese dopo eravamo in trenta».

Dopo una lunga ristrutturazione, il Beccaria conta nuovi spazi e un nuovo direttore. Oggi ospita 70 detenuti di età compresa tra i 14 e i 17 anni (foto Ansa)

Don Gino iniziò allora a fare due cose: cercare dei volontari che lo aiutassero, «perché questo lavoro non si più fare da soli», e confrontarsi col direttore del Beccaria, il mitico «Antonio Salvatore, maestro elementare, un educatore vero, da cui ho imparato tantissimo», per capire come organizzare il “lavoro” fuori e dentro il carcere. Il “modello Beccaria” di Salvatore (educatori, volontari, agenti di polizia “padri di famiglia” e adeguatamente formati) e l’associazione Comunità Nuova di don Gino (che dal 1973 avrebbe tra le altre, tantissime cose, gestito alloggi per i giovani in difficoltà) nascevano così: tra e per quei ragazzotti del meridione per i quali affiliarsi alla mala dei quartieri e farsi la casanza valeva più di qualunque diploma.

C’erano quelli della Comasina che erano specializzati in rapine, quelli di Quarto Oggiaro lo erano in furti, a Baggio in spaccio. Fino a che incontravano don Gino, cioè qualcuno che «non voleva proprio perderli», e allora non erano più “solo” una banda di delinquenti ma erano Angelo, Cochis, Gaetano, qualcuno “chiamato per nome”.

Gaetano, un talento per le rapine che voleva fare il medico

Dell’ingenuo Angelo, che morì di Aids come centinaia di ragazzi ai quali don Gino fece il funerale («non c’erano i retrovirali, i poveracci morivano di Hiv o di overdose, le sedi della Comunità erano assediate da genitori che ci chiedevano in lacrime di aiutare loro figli») si è già detto. Cochis era invece un ragazzone grande e grosso che li fece espellere da tutti i tornei di calcio a cui don Gino era riuscito a iscrivere i giovani detenuti («appena entrò in campo diede un cazzotto all’arbitro e buonanotte»). Divennero così amici che don Gino finì per accompagnarlo con un macchinone prestato da alcuni amici a nozze in Comune, «e quando lo rividi, anni dopo, i suoi figli parevano lord inglesi, puliti, pettinati, educati, obbedienti a quel padre grande e grosso che ricordava loro in continuazione l’importanza del decoro e delle buone maniere. Da che pulpito!», sorride don Rigoldi.

Gaetano non somigliava affatto a Cochis: era un bel ragazzo con gli occhi azzurri e un talento per le rapine: «Io non sarò mai come mio padre, che lavora tutto il giorno in un supermercato – ripeteva –, alla sera torna a casa, si beve due bicchieri di vino e si addormenta con la faccia sul tavolo. Io una vita così non la farò mai». Don Gino lo mandò allora a scuola e se portò a casa: «Diventò perito industriale e si iscrisse all’università. E non una qualunque: Medicina. Non fece in tempo a diventare medico: una settimana prima di morire mi chiamò: “Don, dobbiamo parlare del mio funerale”. E poi se ne andò. In Paradiso, credo. È stata una sofferenza grande».

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Il primo ragazzo “bravo e buono” ma senza nome: «Facciamo così, ti adotto io»

Con gli anni Novanta, i figli dei proletari del Sud lasciarono il posto agli immigrati: «Non aveva neanche un foglietto con scritto il suo nome e cognome, quel ragazzino marocchino che mi avevano inviato da una comunità. “È bravo e buono”, mi dicevano, “sì ma chi è, come si chiama”, rispondevo io. In fretta scoprii che procurargli i documenti era una impresa tragica: questo ragazzino non aveva famiglia, per lo Stato non era nessuno e figlio di nessuno». “Facciamo così, facciamo che ti adotto”, tagliò corto don Gino. Fu il primo che Rigoldi adottò, il primo a cui diede un nome senza il quale non è possibile essere chiamati né avere un futuro. Ora è cinque adozioni. Uno dei suoi figli è morto in un incidente stradale in moto qualche anno fa, e anche questa fu una sofferenza enorme per don Gino.

Qualcosa era cambiato anche dietro le sbarre: seppur disastrata, i ragazzi italiani degli anni Settanta e Ottanta come Angelo, Cochis o Gaetano avevano una famiglia, e così una idea di lavoro, di casa o di famiglia che riempiva il loro orizzonte. Gli albanesi prima, e gli arabi poi, che avrebbero affollato il Beccaria a partire dagli anni Novanta no, «non avevano nessuno. I ragazzi albanesi erano molto aggressivi, cercavano con grande violenza di predare i beni che sentivano gli fossero stati negati nell’Albania del dittatore Hoxha. Erano ragazzi che erano stati tenuti in gabbia fino all’ultimo momento, impregnati di cultura marxista e con i quali era difficile instaurare un rapporto».

L’arrivo degli albanesi “in gabbia”. E degli islamici, guidati solo dalla “sopravvivenza”

La svolta fu trovare loro una scuola, una casa, e soprattutto un lavoro: «Quand’è che si conferma la fiducia di un ragazzo nei tuoi confronti? Quando ti assumi il suo bisogno. Non basta aprirgli la porta e fargli capire che vale con lo sguardo, la compagnia, il confronto, l’accoglienza, il ragazzo vuole delle risposte: se mi dice che non ha una casa, questo deve diventare un mio problema». Gli albanesi erano duri, capaci di commettere reati gravi, ma allo stesso tempo intelligenti e imprenditivi. Non facevano paura a don Gino («la paura è già un giudizio sulla persona, e io giudico le azioni, non le persone: non le identifico col loro reato», racconta il cappellano del carcere in cui conobbe anche Erika e Omar) che se ne riempì la casa: «Ne ho ospitati una trentina. Oggi sono tutti “a posto”, integrati, solidi, anche fra di loro c’è chi porta il mio nome. Diversa cosa fu affrontare arabi e nordafricani. È cambiato tutto con loro».

Se gli albanesi erano impregnati di marxismo-leninismo, i ragazzi provenienti dalle aree più povere dei paesi islamici parevano guidati solo dalla sopravvivenza: la propria e quella di chi aveva pagato per metterli a bordo di un barcone. Una molla fortissima: era la sopravvivenza a farli camminare per cento chilometri, salire su un gommone, nascondersi sotto i camion, attraversare mare o deserto: «Non cercavano riscatto, integrazione, amicizia, solo di sopravvivere. Anche oggi la maggior parte dei reati commessi dai detenuti del Beccaria sono reati di sopravvivenza, non di “potere” come quelli degli anni Settanta. A noi toccava cambiare approccio, diventare ancora più concreti».

«Al Beccaria finiscono ragazzi colpevoli soprattutto di reati legati alla sopravvivenza. Si contano circa 700/800 minori in giro per la città in cerca di un letto e di un pasto caldo», spiega don Gino Rigoldi (foto Ansa)

Senza padri, col Vangelo dello smartphone

Il fondatore di Comunità Nuova (e poi dell’Associazione Bir, Bambini in Romania, fondata nel 1999, e della Fondazione che prende il suo nome), era riuscito allora a mettere in piedi un gruppo di professionisti dediti a progetti educativi e di formazione professionale che fossero immediatamente “spendibili” per questi ragazzi semianalfabeti e poverissimi: «Pizza, cartongesso, giardinaggio, computer, siamo partiti così: con un’officina e dei laboratori per insegnare loro un mestiere e aiutarli a immaginare un orizzonte. Per me il cuore dell’educazione si chiama relazione e la relazione è fatta di cose concrete».

Tanto concrete che non ha ancora finito di ospitare chi ha bisogno: dovevano essere in sette e invece sono in 14 in casa Rigoldi (qui Tempi vi aveva raccontato la quarantena di don Gino in mezzo ai ragazzi a parlare di croce e resurrezione), oggi tutti nordafricani, e tutti, eccetto uno, musulmani. Accomunati dallo stesso “vangelo” dei ragazzi italiani: «Il telefonino. Questa generazione non ha padri, non ha riferimenti in carne ed ossa, non sa del Padre nulla, ma trova maestri a bizzeffe in quell’arnese stretto in mano quando non si lavora per dieci ore al giorno e da cui s’impara tutto, comportamenti e sedicenti valori. Non è vero che non c’è nessuno che si preoccupa per questi ragazzi: c’è internet, con tutta la sua mole di figuri provenienti da media e social, che arriva prima di noi».

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A metterli tutti su un piatto (problemi di sovraffollamento, evasioni, eccetera) va detto anche che i ragazzi a Milano, punto di arrivo per moltissimi immigrati, non hanno dove andare. «Ne abbiamo circa 700/800 in giro per la città, in cerca di un letto, un pasto. E non riusciamo intercettarli. Ma anche dato loro un letto, poi, cosa fanno? Dove vanno i ragazzi una volta scontata la loro pena? Con la Fondazione stiamo partecipando al bando per costruire alloggi per lavoratori, ma da mesi mi sto arrovellando per pensare come replicare a Milano il modello francese delle “jeunes maisons”: case, o sarebbe meglio dire comunità che ospitano una ventina di ragazzi una volta usciti dal carcere e che guidati da un educatore svolgano tante attività culturali». Un “villaggio” che nella Milano che non regala casa e lavoro a nessuno sembra un’utopia, ma che per don Gino può diventare missione.

«Bisogna essere concreti e costruire opere. C’è un bisogno disperato di luoghi concreti che strappino i ragazzi alla miseria e li aiutino a farsi gruppo, compagnia. E di luoghi di cura. I ragazzi di oggi non sono i ragazzi degli anni Settanta. E quello che si portano in carcere è una enormità di fragilità, vuoto di senso, sofferenza psicologica e troppe volte psichiatrica, legata anche alla tossicodipendenza». Aveva una famiglia disastrata, il suo “Andrea”, entrava e usciva da penitenziari e ricoveri e aveva ricominciato a farsi qualche buco. Presa una infezione, scappò dall’ospedale: lo ritrovarono incosciente e trascorse settimane tra rianimazione e terapia intensiva. «Andrea è morto così. Il suo posto non era in carcere, e nemmeno in una comunità educativa. Aveva bisogno di cure e competenza, gli adolescenti psichiatrici con tossicodipendenze hanno bisogno di non essere lasciati soli», aveva raccontato a Tempi don Gino. Il più instancabile dei preti di strada che da oltre cinquant’anni sale le scale del Beccaria come gli scaloni del Palazzo di giustizia per amore dei suoi ragazzi e di Cristo trafitto dai chiodi.

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L’inesauribile chiamata al Beccaria di don Gino Rigoldi

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22.04.2024
Don Gino Rigoldi davanti all’Istituto Penale per i Minorenni di Milano “Beccaria” (foto Ansa) @media only screen and (min-width: 501px) { .align_atf_banner{ float:left; } }

«Senza attività la gente diventa matta chiusa in cella per 22 ore»: tre giorni fa don Gino Rigoldi era al sit in sullo scalone del palazzo di Giustizia a Milano per tuonare contro la «terribile circolare» sulle chiusure dei reparti di media sicurezza e chiedere al Parlamento e al ministro Carlo Nordio di intervenire. Sono già 32 i suicidi registrati negli istituti penitenziari italiani dall’inizio dell’anno – «22 ore in cella tutti i giorni di tutta la settimana non si chiama sicurezza, si chiama tortura» – e ad animare il più instancabile dei preti di strada, si sa, non è spirito di denuncia, ma spirito santo. Lo stesso che per 50 anni lo ha portato a occuparsi degli affari del Padre suo (spesso anche in modo poco “ecclesiastico”), lontano da quello scalone, dietro le sbarre, tra i ragazzi del carcere minorile Beccaria.

Formalmente don Gino Rigoldi avrebbe rassegnato le dimissioni da cappellano e passato il testimone all’amico don Claudio Burgio, ma come si fa, a 84 anni, a smettere di far da madre, padre, prete, nonno a quegli avanzi di galera? Lo abbiamo scritto tante volte, i ragazzi brutti, sporchi, cattivi, diseredati, tossici sono sempre stati il chiodo di don Gino: a centinaia, usciti dal penitenziario, erano “passati” (e passano tuttora) per la cascina dove vive, centinaia di cinquantamila delinquenti da lui incontrati, accuditi, educati, alcuni anche adottati in mezzo secolo di attività. O meglio, di missione: missione per amore del prossimo e di Cristo, morto in Croce con tutti quei chiodi, come un delinquente. Mica si va in pensione da una cosa così.

Don Gino e gli antimperialisti con barba ed eskimo, «ma poi vengono in chiesa?»

«Io sono diventato prete un po’ tardi», ricorda a Tempi don Gino, che se a tredici anni lavorava già come operaio, a diciotto prendeva l’ingresso del seminario di Venegono con le pinze. «“Guarda, tu non sei adatto a fare il prete”, mi ripeteva il rettore. Finché mi mandò a fare il vicerettore al Collegio Arcivescovile di Varese De Filippi. E lì ho iniziato ad avere a che fare con loro, 120-130 ragazzi». Ragazzi di famiglie abbienti ma con un bisogno grosso così nel quale don Gino trovò finalmente tutte le ragioni che lo avrebbero portato, nel ‘67, all’ordinazione sacerdotale.

E così nel ‘71 approdò alla parrocchia di San Donato Milanese, nella Metanopoli di Enrico Mattei: «Lì i ragazzi abbondavano – continua don Gino – solo che erano tutti di sinistra e del Campo Antimperialista. Io volevo incontrarli: “C’è una bella gioventù che si muove, vediamo cosa abbiamo da dirci”, pensavo. Il parroco invece, che pure mi voleva bene, li vedeva con le barbe e l’eskimo a parlamentare e mi chiedeva preoccupato “ma questi poi ci vengono in chiesa?”. Io ero contento, la Curia, venendo a conoscenza di certi eventi organizzati in parrocchia con 400 persone un po’ meno, però mi pareva di poter fare di più. Cominciavano a girare le droghe, anfetamine, acidi, aumentavano i reati minorili. Allora il Beccaria nessuno sapeva cosa fosse: era appena diventato un carcere pubblico quando seppi che cercavano un cappellano».

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Angelo e la “chiavetta” di casa: «Mi apro una macchina e ci dormo dentro»

Era il 1972 e don Gino Rigoldi aveva 33 anni quando chiese e ottenne di essere destinato lì, dove passavano fino a 1.200 ragazzi l’anno, per lo più figli di immigrati dal........

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