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Un anno fa Jamie Reed denunciava lo sconvolgente trattamento riservato ai minori al Transgender Center della Washington University presso il St. Louis Children’s Hospital. Proprio lei, donna queer, sposata con un uomo trans, militante di sinistra, profondamente convinta che «stessimo prevenendo sofferenze inutili, aiutando i giovani a diventare finalmente se stessi», aveva capito che quello che stava accadendo a decine di bambini nella clinica dove lavorava da quattro anni come “case manager” era in realtà «spaventoso, dal punto di vista morale e medico».

Grazie alla sua testimonianza (pubblicata da The Free Press), il procuratore generale del Missouri aprì una indagine e si moltiplicarono i disegni di legge contro la somministrazione dei bloccanti della pubertà in molti stati Usa. Jamie Reed finì su tutti i giornali (qui il servizio del New York Times), dipinta da molti alla stregua di una “infedele”. L’America faceva i conti con il suo “scandalo Tavistock” e i liberal con la vergogna che a scoprire il vaso di Pandora e lasciare la clinica («non potevo più partecipare a cosa stava accadendo lì», «stavamo danneggiando in modo permanente i pazienti vulnerabili affidati alle nostre cure»), fosse stata proprio “una di loro”.

Voleva salvare i bimbi trans. Ma i progressisti non perdonano

A un anno di distanza, ha raccontato Reed alla prima conferenza americana di Genspect (organizzazione che scoraggia la transizione di genere dei minori – qui stralci dell’intervento pubblicato pochi giorni fa da Tfp), l’accusa più scioccante ricevuta dalla donna resta quella di «avere in qualche modo tradito le mie convinzioni progressiste. Tanti critici e media hanno cercato di dipingere non solo me, ma l’intera questione dei giovani transgender come una resa dei conti tra destra e sinistra». A poco era servito a Reed ribadire cosa fosse accaduto al St. Louis e che a muoverla a denunciare le autorità mediche fosse stata proprio la sua educazione di sinistra e dalla parte dei più deboli: per la stampa progressista la donna – una vita spesa tra adolescenti e giovani positivi all’Hiv – aveva chiaramente subito un «lavaggio del cervello» dai conservatori ed era mossa da un «evidente pregiudizio ideologico», «anche il giornale di sinistra della mia città natale era più interessato alle affiliazioni politiche che alla sostanza delle mie affermazioni».

Eppure Reed aveva visto aumentare da 10 a 50 al mese le richieste di trattamento in quattro anni e circa «il 70 per cento dei nuovi pazienti erano ragazze. A volte arrivavano gruppi dalla stessa scuola superiore», un fatto strano, ma «chi sollevava dubbi correva il rischio di essere definito transfobo». Avevano anche molte comorbidità, depressione, ansia, adhd, disturbi alimentari, obesità, soprattutto disturbi dello spettro autistico; denunciavano tuttavia di soffrire di sintomi o avere personalità multiple senza alcun riscontro medico. E se i medici non faticavano a riconoscere in queste false autodiagnosi – tendenza al suicidio compresa – delle «manifestazioni di contagio sociale», nel caso dell’identità di genere ipotizzare una influenza dei pari era tabù. Così come discutere i benefici della transizione: «Se non trattata, la disforia di genere porta numerose conseguenze, dall’autolesionismo al suicidio», affermava il centro che si occupava anche di fornire ai terapisti un modello di lettera di sostegno alla transizione. Al contrario, permettere «a un bambino di essere quello che è» avrebbe eliminato ogni problema.

Negli Stati Uniti la prima clinica pediatrica per il genere apre a Boston nel 2007. Quindici anni dopo si contano più di 100 cliniche

Tossicità epatica, lacerazioni vaginali

Non c’era solo la retorica a colmare l’inquietante assenza di protocolli formali e di studi attendibili che dimostrassero le affermazioni di medici. Ricordiamolo, oggi che l’Oms annuncia di voler elaborare nuove linee guida gender-affermative istituendo un panel formato per tre quarti da transattivisti favorevoli alla medicalizzazione dei bambini, «preferibilmente tutti, anche quelli che non soffrono di disforia – denuncia il FeministPost -. Perché scegliere di che sesso sei deve diventare un diritto universale» (qui la petizione universale contro l’iniziativa).

Non c’erano insomma solo i proclami. C’era il ragazzo finito in ospedale per tossicità epatica da bicalutamide (farmaco antitumorale, prescritto come bloccante della pubertà ai ragazzi), la 17enne operata d’urgenza perché il testosterone le aveva assottigliato i tessuti e durante un rapporto sessuale le si era squarciato il canale vaginale («Non è stato l’unico caso di lacerazione»). C’erano le ragazze disturbate dagli effetti del testosterone sul loro clitoride, «che si allarga e muta in quello che sembra un microfallo, o un minuscolo pene. Ho dovuto assistere una paziente il cui clitoride ingrossato ora si estendeva sotto la vulva, e sfregava dolorosamente sui jeans». Insomma c’erano loro: ragazzi inconsapevoli del fatto che assumere «potenti dosi di testosterone o estrogeni, sufficienti per cercare di indurre il corpo a imitare il sesso opposto», avrebbe influito su tutto il resto, e genitori inconsapevoli che acconsentendo alla somministrazione di testosterone potevano condannare i figli a dover convivere in futuro con i farmaci per la pressione sanguigna, il colesterolo, l’apnea notturna o il diabete.

Sulla clinica Tavistock leggi anche:

Com’è che nella clinica per “bambini trans” è andato tutto così storto

Il servizio sanitario britannico chiude la clinica che sfornava bambini transgender

«Stiamo creando una generazione con i genitali atipici»

Ancora Jamie Reed:

«Ci sono rare condizioni in cui i bambini nascono con genitali atipici, casi che richiedono cure sofisticate e compassione. Ma cliniche come quella in cui ho lavorato stavano creando un’intera coorte di ragazzi con genitali atipici – e la maggior parte di questi adolescenti non aveva ancora fatto sesso. Non avevano idea di chi sarebbero stati da adulti. Eppure, tutto ciò che è servito loro per trasformarsi in modo permanente sono state una o due brevi conversazioni con un terapista».

In fretta vennero indirizzati al centro anche i giovani dell’unità psichiatrica, del pronto soccorso, dell’ospedale pediatrico, spesso già in cura con altri farmaci, giovani affetti da «schizofrenia, disturbo da stress post-traumatico, disturbo bipolare e altro ancora». Non importava quanta sofferenza o dolore avesse sopportato un ragazzino, o quanto poco amore o cura avesse ricevuto, «i nostri medici consideravano la transizione di genere, nonostante tutte le spese e le difficoltà che comportava, come la soluzione». Reed aveva denunciato alcuni casi terribili, a partire da quello di un 17enne, figlio di un galeotto e di una tossicodipendente, rinchiuso in una struttura perché aveva abusato sessualmente di cani, che fu avviato prontamente agli ormoni femminili. Non fu l’unico problema “risolto” con questa strana forma di castrazione chimica.

Molte detransitioners raccontano di aver iniziato a mettere in discussione il genere influenzate dai coetanei sui social media (foto Ansa)

Da trans a detransitioner: «Rivoglio il mio seno»

Anche le dispute tra genitori venivano “risolte” col centro schierato sempre dalla parte del genitore “affirming”. Reed ricorda la testimonianza di uno dei loro medici durante un’udienza per l’affidamento contro un padre che si opponeva al desiderio di una madre di somministrare alla figlia di 11 anni (che vedeva come “un maschiaccio”) i bloccanti della pubertà: in seguito all’intervento del medico il giudice non aveva esitato a schierarsi con la donna.

Finché, nel 2019, iniziarono a comparire i primi detransitioners: «Uno dei casi più tristi è stato quello di una adolescente (…) viveva in una situazione di vita incerta e aveva una storia di uso di droga. La stragrande maggioranza dei nostri pazienti è bianca, ma questa ragazza era nera. Le furono somministrati degli ormoni quando aveva circa 16 anni. Quando ne aveva 18, subì una doppia mastectomia (…) Tre mesi dopo chiamò lo studio del chirurgo per dire che sarebbe tornata al suo nome di nascita e che i suoi pronomi erano “she” e “her”. Con voce straziante si rivolse all’infermiera: “Rivoglio il mio seno”».

«La sicurezza dei bambini non è di destra o sinistra»

Reed, due figli biologici e tre in affido, dovette aspettare il novembre 2022 per lasciare il centro dove l’équipe medica aveva intimato a lei e all’unico collega che condivideva le sue preoccupazioni, di non discutere «la medicina e la scienza». Ha deciso di denunciare cosa accedeva al Centro Transgender dopo aver sentito Rachel Levine, vice-segretario per la salute e primo funzionario federale apertamente transgender nel governo statunitense, affermare che in nessuna clinica «nessun bambino americano riceve farmaci o ormoni per la disforia di genere se non ne ha bisogno».

Lo fatto presentando una fitta documentazione al procuratore generale del Missouri. «È un repubblicano. Io sono un progressista. Ma la sicurezza dei bambini non dovrebbe essere oggetto delle nostre guerre culturali (…) I medici con cui ho lavorato al Centro Transgender dicevano spesso, riguardo al trattamento dei nostri pazienti: “Stiamo costruendo l’aereo mentre lo stiamo pilotando”. Nessuno dovrebbe essere un passeggero su quel tipo di aereo».

Foto di Alexander Grey su Pexels

Sulle cure di genere leggi anche:

«Le cure di genere ai bambini sono pericolose. Ve lo dico io che le ho fatte per prima»

L’ospedale svedese sulle cure ai minori transgender: «Abbiamo fatto del male ai bambini»

QOSHE - Ripudiata dalla sinistra per aver difeso i bambini dalle cure trans - Caterina Giojelli
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Ripudiata dalla sinistra per aver difeso i bambini dalle cure trans

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09.01.2024

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Un anno fa Jamie Reed denunciava lo sconvolgente trattamento riservato ai minori al Transgender Center della Washington University presso il St. Louis Children’s Hospital. Proprio lei, donna queer, sposata con un uomo trans, militante di sinistra, profondamente convinta che «stessimo prevenendo sofferenze inutili, aiutando i giovani a diventare finalmente se stessi», aveva capito che quello che stava accadendo a decine di bambini nella clinica dove lavorava da quattro anni come “case manager” era in realtà «spaventoso, dal punto di vista morale e medico».

Grazie alla sua testimonianza (pubblicata da The Free Press), il procuratore generale del Missouri aprì una indagine e si moltiplicarono i disegni di legge contro la somministrazione dei bloccanti della pubertà in molti stati Usa. Jamie Reed finì su tutti i giornali (qui il servizio del New York Times), dipinta da molti alla stregua di una “infedele”. L’America faceva i conti con il suo “scandalo Tavistock” e i liberal con la vergogna che a scoprire il vaso di Pandora e lasciare la clinica («non potevo più partecipare a cosa stava accadendo lì», «stavamo danneggiando in modo permanente i pazienti vulnerabili affidati alle nostre cure»), fosse stata proprio “una di loro”.

Voleva salvare i bimbi trans. Ma i progressisti non perdonano

A un anno di distanza, ha raccontato Reed alla prima conferenza americana di Genspect (organizzazione che scoraggia la transizione di genere dei minori – qui stralci dell’intervento pubblicato pochi giorni fa da Tfp), l’accusa più scioccante ricevuta dalla donna resta quella di «avere in qualche modo tradito le mie convinzioni progressiste. Tanti critici e media hanno cercato di dipingere non solo me, ma l’intera questione dei giovani transgender come una resa dei conti tra destra e sinistra». A poco era servito a Reed ribadire cosa fosse accaduto al St. Louis e che a muoverla a denunciare le autorità mediche fosse stata proprio la sua educazione di sinistra e dalla parte dei più deboli: per la stampa progressista la donna – una vita spesa tra adolescenti e giovani positivi all’Hiv – aveva chiaramente subito un «lavaggio del cervello» dai conservatori ed era mossa da un «evidente pregiudizio ideologico», «anche il giornale di sinistra della mia città natale era più interessato alle affiliazioni politiche che alla sostanza delle mie........

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