Silvio Berlusconi in un frame della serie Netflix “Il giovane Berlusconi”

È un Cavaliere gioviale, ottimista, frenetico quello che appare nella docuserie Netflix Il giovane Berlusconi. Diretta da Simone Manetti, racconta in tre episodi come l’uomo di Arcore costruì il suo impero televisivo con testimonianze, tra gli altri, di Marcello Dell’Utri, Fedele Confalonieri, Giovanni Minoli, Iva Zanicchi, Carlo Freccero, Vittorio Dotti, Adriano Galliani, Achille Occhetto, Stefania Craxi. Si parte dagli anni Settanta – Berlusconi è già un imprenditore affermato grazie alla Edilnord – e ci si ferma al giorno del giuramento del suo primo governo, con l’ultima immagine di un Berlusconi soddisfatto che si appresta a ricevere l’incarico dal presidente Oscar Lugi Scalfaro.

Le tre puntate sono godibili, il ritmo della narrazione è buono, molte scene e racconti – nessuno inedito – ci restituiscono l’immagine del personaggio fuori dal comune, straripante ed eccessivo, che ben conosciamo.

A molti, soprattutto a sinistra, la serie non è piaciuta per la semplice ragione che Berlusconi non è presentato come il Caimano, non è cioè la personificazione del “Male”, del mafioso e del drago sciupaminorenni di cui spesso si è discusso. Siamo lontani dalle interpretazioni ideologiche di Moretti o da quelle di Videocracy di Erik Gandini: qui la parte dell’avvocato del diavolo la sostiene Pino Corrias (RepubblicaFatto quotidiano), ma in una maniera tutto sommato benevola, senza mai affondare troppo il colpo.

Insomma, quel che molti hanno rimproverato alla docuserie è di non aver parlato degli affari sporchi del Cav, della P2, delle sue donne: in una parola, di essere troppo indulgente con chi ha rovinato per trent’anni il Belpaese.

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Belle donnine e belle canzoncine

Ma non è questo il punto, a nostro avviso. In realtà, quello su cui la serie insiste è un altro luogo comune della complessa vicenda berlusconiana e cioè che lui era “Sua Emittenza”, il signore della televisione, il grande comunicatore dotato di abilità commerciali notevoli, capace di vendere il ghiaccio agli eschimesi. Il suggerimento è che abbia poi trasportato i suoi talenti magnetici di grande affabulatore in politica, trattando i cittadini alla stregua di consumatori, in sostanza ingannandoli con giochi di prestigio, belle donnine discinte, jingle da trenta secondi.

Da questo punto di vista, Il giovane Berlusconi è una serie quasi didascalica. Ogni frase, ogni immagine, rafforzata dalla spiegazione massmediatica e sociologica di Freccero, serve a convincerci di questo: Berlusconi è stato per tutta la vita un uomo di televisione, ma della tv privata, quella che deve fare profitti, i famosi danè, quella che deve rifilarti lo shampoo e il detersivo, l’automobile e la crema per le rughe. Il giovane Berlusconi era un “commerciale”, un uomo di business e tale è rimasto sempre, esercitando grazie alle sue tv una speciale fascinazione su tanti italiani.

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È vero, ma non è tutta la verità. È la “parte” di verità che piace alla sinistra raccontare e raccontarsi, in sostanza per autoassolversi dopo la clamorosa sconfitta del 1994, quando tutto sembrava pronto per lo sbarco a Palazzo Chigi di Occhetto e della gioiosa macchina da guerra.

Da questo punto di vista, si rimesta nel marginale senza spiegare il vero segreto delle vittorie di Berlusconi. E così sono trent’anni che ci ripetono sempre le stesse storie: 1) nel famoso duello in tv da Mentana, Occhetto perse a causa dell’improbabile giacca marrone che dava tanto l’idea del vecchio comunista dell’apparatčik, mentre l’homo novus Berlusconi prevalse grazie alla spilletta che brillava sotto le luci dello studio. 2) Il messaggio registrato della “discesa in campo” (quello che iniziava con quella frase che fece inorridire i politologi, «l’Italia è il Paese che amo»), cambiò la comunicazione politica depauperandola di contenuti. 3) Mandò in soffitta i partiti creandone uno di plastica con un nome da urlo da stadio.

Fare e persino sbagliare

Tutto vero, ma non è tutta la verità. Se la prima verità che alla sinistra piace raccontarsi è che “Lui” era il diavolo, punto e basta, la seconda è che è stato più bravo di loro – perché ne aveva i mezzi – a capire e interpretare la società italiana che era cambiata dopo le ideologie degli anni Settanta e la sbornia reaganiana degli Ottanta. Un’Italia che non ne poteva più delle tribune politiche – dicono a sinistra -, ma voleva solo vedere i Puffi e Berlusconi le aveva dato i Puffi. In sostanza, un popolo di teleidioti.

Un po’ poco come spiegazione, ma è quel che fa sempre la sinistra per giustificare le proprie sconfitte: con Berlusconi dava la colpa al conflitto di interessi, con Salvini al populismo, con Meloni al fascismo. Mai un’autocritica. Ogni volta la sinistra trova un motivo per non fare i conti con un dato più eclatante e, dal suo punto di vista, più doloroso: piuttosto che loro – loro: quelli che vorrebbero imporre agli italiani “impresentabili” una mentalità e un costume – preferiscono l'”altro”, che sia di volta in volta Berlusconi, Salvini o Meloni.

Ecco: perché preferiscono l'”altro”?

Berlusconi non ha vinto per ragioni occulte o perché controllava le tv o perché ha promesso la “rivoluzione liberale”. Berlusconi ha vinto perché tanti italiani hanno capito benissimo che lui – uomo tanto geniale quanto imperfetto – non avrebbe mai imposto loro un “dover essere”, una moralità, una presentabilità che a loro non andava a genio. Un habitus che forse sarebbe stato più consono per interpretare lo spirito del tempo, ma che in sostanza sarebbe stato una camicia di forza, un elegante frac per nascondere il pigiama a righe da carcerato. Invece molti italiani capirono benissimo che lui li avrebbe lasciati liberi, come era libero lui, di fare e – punto fondamentale – persino di sbagliare.

QOSHE - Nemmeno Netflix ha capito il segreto del “giovane Berlusconi” - Emanuele Boffi
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Nemmeno Netflix ha capito il segreto del “giovane Berlusconi”

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21.04.2024
Silvio Berlusconi in un frame della serie Netflix “Il giovane Berlusconi”

È un Cavaliere gioviale, ottimista, frenetico quello che appare nella docuserie Netflix Il giovane Berlusconi. Diretta da Simone Manetti, racconta in tre episodi come l’uomo di Arcore costruì il suo impero televisivo con testimonianze, tra gli altri, di Marcello Dell’Utri, Fedele Confalonieri, Giovanni Minoli, Iva Zanicchi, Carlo Freccero, Vittorio Dotti, Adriano Galliani, Achille Occhetto, Stefania Craxi. Si parte dagli anni Settanta – Berlusconi è già un imprenditore affermato grazie alla Edilnord – e ci si ferma al giorno del giuramento del suo primo governo, con l’ultima immagine di un Berlusconi soddisfatto che si appresta a ricevere l’incarico dal presidente Oscar Lugi Scalfaro.

Le tre puntate sono godibili, il ritmo della narrazione è buono, molte scene e racconti – nessuno inedito – ci restituiscono l’immagine del personaggio fuori dal comune, straripante ed eccessivo, che ben conosciamo.

A molti, soprattutto a sinistra, la serie non è piaciuta per la semplice ragione che Berlusconi non è presentato come il Caimano, non è cioè la personificazione del “Male”, del mafioso e del drago sciupaminorenni di cui spesso si è discusso. Siamo lontani dalle interpretazioni ideologiche di Moretti o da quelle di Videocracy di Erik Gandini: qui la parte dell’avvocato del diavolo la sostiene Pino Corrias (RepubblicaFatto quotidiano), ma in una maniera tutto sommato benevola, senza mai affondare troppo il colpo.

Insomma, quel che molti hanno........

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