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La platea e la galleria del teatro di Busto Arsizio si riempiono presto la mattina: ragazzi e ragazze del liceo Crespi (classico, linguistico, scienze umane) mi hanno invitato per dialogare su quanto sta accadendo in Medio Oriente. Soprattutto, così mi hanno scritto nell’invito, vogliono conoscere la mia esperienza umana in quella terra che frequento da 45 anni e dove ora abito, nella mia casa di Gerusalemme, a poche centinaia di metri dalle mura che racchiudono la Basilica del Sepolcro, l’Anastasi (la Resurrezione), come lo chiamano i greco ortodossi, e, poco più in là, il Kotel, il Muro del pianto, quello che resta del Tempio di Salomone, e sopra c’è la contesa Spianata delle moschee. Vogliono sapere di Israele, della Palestina, vogliono sapere come vivo, come vive chi ci abita. Dall’invito mi sembrano soprattutto interessati all’esperienza umana che mi è stata data di vivere, e sono un po’ preoccupato.

Come comunicare tanti anni di vita, di amicizie, di rapporti umani e, contemporaneamente, spiegare ragioni storiche e geopolitiche sulle quali da sempre editorialisti e storici, ben più attrezzati di me, continuano a litigare? E, soprattutto, quale passione umana mi lega a quelle terre e quale passione umana mi porta a incontrare questi ragazzi che hanno più l’età dei miei nipoti che dei miei figli?

Nessuno dei miei giovanissimi interlocutori, mi dicono, è mai stato in quelle terre. Penso: cosa mi lega a loro? Come, letteralmente, orientarmi, cioè trovare la giusta direzione (orientarsi vuol dire proprio trovare l’Oriente)? Forse è l’occasione giusta per me e per loro (più per me che per loro).

Come rendere quelle voci e quegli odori?

Un bravissimo collega, Giorgio Bernardelli, giornalista e storico, inquadra bene la questione, ma a me, che in qualche modo faccio parte del paesaggio (come amo spesso dire con una punta di orgoglio e di amore per quella terra e chi vi abita), spetta un compito più arduo. Penso alla mia casa di Gerusalemme, dal cui terrazzo si dominano i quartieri ultraortodossi di Mea Shearim e Geula. Si vedono le mura della città vecchia, il campanile della Custodia, le cupole del Sepolcro e della moschea. Il muro che divide Israele dalla Palestina, Ramallah e le colonie. E, continuo, si sente il brusio del mercato di Mea Shearim e le voci di tante tante vite.

Come rendere quelle voci, quegli odori di spezie e aromi, quei colori dell’alba e del tramonto? E come raccontare i viaggi a Gaza, nell’orrore di Gaza, o tra le colline della Cisgiordania, tra i villaggi palestinesi e le colonie ebree, gli scontri, gli attentati? L’ultimo davanti ai miei occhi proprio prima di partire, al passaggio pedonale dove l’auto di un terrorista ha travolto a pochi metri da me un uomo che, proprio come me, usciva dal mercato.

Immaginate un muro tra voi

Non è poi così difficile: quei ragazzi sanno ascoltare e fanno domande dirette che aiutano il mio discorso a dipanarsi, a volte confuso, a volte più chiaro. Mostro loro le due ali in cui è divisa la platea: ecco, pensate di abitare a poche decine di metri gli uni dagli altri, come a Sheik Jarrah, il quartiere arabo di Gerusalemme, e a Mea Shearim. Eppure andrete sempre in scuole diverse, parlerete lingue diverse, non giocherete mai a pallone insieme o a mondo (ma si gioca ancora a mondo?) sui marciapiedi. Non guarderete mai le ragazze e i ragazzi che stanno dall’altro lato della strada, non li inviterete mai a prenderete un gelato insieme. E poi, più in là, le vostre famiglie saranno divise da muri alti nove metri. Non vi permetteranno mai di innamorarvi dell’“altro”.

Ecco, vi racconto i muri che passano attraverso i cuori. E poi la guerra che questi ragazzi che mi ascoltano vedono attraverso i tg, senza conoscere le vicende umane dei ragazzi della loro età che, da una parte e dall’altra, si affrontano.

Gli stessi padri, ma da punti di vista diversi

Mi chiedono la cosa più difficile: chi è l’ebreo? Cosa lo definisce? E nessuno, tanto meno io, sa rinchiudere la ricchezza di una storia, di una discendenza, di una tradizione, e anche, ma non solo, di una religione, in poche parole.

Parlo di Hebron, del complesso che racchiude le tombe dei patriarchi: Abramo, Sara, Isacco, Giacobbe. Di come siano considerati padri tanto dagli ebrei quanto dagli arabi, e «dove riposano le ossa dei tuoi padri», dice un’antica legge orientale, «quella è la tua terra». E così ebrei e arabi hanno costruito una sinagoga e una moschea che si affacciano sulle tombe, ma da due lati diversi. Guardano gli stessi padri, riconoscono gli stessi padri, ma i punti di vista sono diversi. E gli ebrei non possono entrare nella moschea e i palestinesi nella sinagoga. Non si può cambiare punto di vista.

Solo a me, cristiano, è concesso di entrare in entrambi gli edifici. Vorrà pur dire qualcosa, e mi ricordo di quel cameraman che una volta era con me e che mi chiese: ma quale sarà il punto di vista di Dio? Come ai discendenti di Abramo, attraverso Isacco gli uni, attraverso Ismaele gli altri? Lui, Hashem, Allah, che è Padre di tutti e a cui tutti attribuiscono la stessa grande qualità: il Misericordioso, Colui che è ricco di Misericordia.

Poi parliamo anche del fondamentalismo e del fanatismo che usa la religione per una guerra alla religione. I ragazzi ascoltano e sollecitano, mi aiutano. Parlando di sé, si impara, imparo, cerco di stare attento a trovare le parole giuste, a non tradire la storia che ho incontrato e vissuto.

«Non abbiate paura»

Attraverso una strana applicazione, i ragazzi inviano su una schermata le parole che hanno trattenuto: su tutte domina la parola “paura”, seguita da “comprensione” e, poi, ovviamente, “dialogo”, “pace”…

Mi colpisce che la parola “paura” appaia più grande di tutte, segno che tutti l’hanno cliccata. E spiego che in ebraico la “paura” ha due connotati: il terrore e il timore di Dio. E mi ricordo che Gesù, ogni volta che incontra i discepoli, per prima cosa dice proprio: «Non abbiate paura». In tutti i sensi, perché in ebraico paura e timore hanno un solo opposto: il coraggio. Il coraggio che vince il terrore della morte, dell’altro, del nemico, ma che prevale anche sul timore di fronte al Destino che si è fatto alleato e amico, con il quale si può dialogare a volto aperto, come fece Mosè e come fecero Maddalena, la Samaritana, i discepoli.

I ragazzi ci chiedono cosa possono fare. Mettetevi in contatto con i ragazzi ebrei e arabi, dico, usateli questi TikTok, Instagram, Facebook, questi social… Scrivete con coraggio perché la radice del coraggio è nel cuore. Scrivete con il cuore. Senza paura.

QOSHE - Spiegare il conflitto in Israele a scuola. «Il coraggio e la paura» - Giancarlo Giojelli
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Spiegare il conflitto in Israele a scuola. «Il coraggio e la paura»

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28.11.2023
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La platea e la galleria del teatro di Busto Arsizio si riempiono presto la mattina: ragazzi e ragazze del liceo Crespi (classico, linguistico, scienze umane) mi hanno invitato per dialogare su quanto sta accadendo in Medio Oriente. Soprattutto, così mi hanno scritto nell’invito, vogliono conoscere la mia esperienza umana in quella terra che frequento da 45 anni e dove ora abito, nella mia casa di Gerusalemme, a poche centinaia di metri dalle mura che racchiudono la Basilica del Sepolcro, l’Anastasi (la Resurrezione), come lo chiamano i greco ortodossi, e, poco più in là, il Kotel, il Muro del pianto, quello che resta del Tempio di Salomone, e sopra c’è la contesa Spianata delle moschee. Vogliono sapere di Israele, della Palestina, vogliono sapere come vivo, come vive chi ci abita. Dall’invito mi sembrano soprattutto interessati all’esperienza umana che mi è stata data di vivere, e sono un po’ preoccupato.

Come comunicare tanti anni di vita, di amicizie, di rapporti umani e, contemporaneamente, spiegare ragioni storiche e geopolitiche sulle quali da sempre editorialisti e storici, ben più attrezzati di me, continuano a litigare? E, soprattutto, quale passione umana mi lega a quelle terre e quale passione umana mi porta a incontrare questi ragazzi che hanno più l’età dei miei nipoti che dei miei figli?

Nessuno dei miei giovanissimi interlocutori, mi dicono, è mai stato in quelle terre. Penso: cosa mi lega a loro? Come, letteralmente, orientarmi, cioè trovare la giusta direzione (orientarsi vuol dire proprio trovare l’Oriente)? Forse è........

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