Philippe Lazzarini, commissario dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i profughi palestinesi (foto Ansa)

Lo scandalo che ha coinvolto l’Unrwa avrà «conseguenze catastrofiche per la popolazione di Gaza», recita la dichiarazione dei responsabili di tutti gli organismi delle Nazioni Unite. Quindici paesi, tra cui l’Italia, hanno infatti sospeso i finanziamenti – in totale sono un miliardo e quattrocento milioni di dollari l’anno – alla agenzia dell’Onu che, con 13 mila dipendenti, si occupa dei programmi di soccorso, sviluppo, istruzione, assistenza sanitaria, servizi sociali e aiuti di emergenza ai cinque milioni di rifugiati palestinesi che vivono a Gaza, in Cisgiordania, Libano, Siria e Giordania.

L’accusa che ha portato a interrompere il flusso di denaro che da settant’anni anni finisce nelle casse dell’organizzazione è pesantissima. Tra i terroristi che il 7 ottobre scorso hanno massacrato 1.200 israeliani, violentato donne, tagliato le teste a bambini in culla, rapito oltre duecento civili ebrei, c’erano almeno dodici dipendenti della agenzia Onu.

Accuse che non si possono ignorare

Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, conferma che 12 membri della agenzia sono stati licenziati ed è stata aperta una inchiesta, ma lancia un allarme: l’interruzione dei finanziamenti porterà alla paralisi delle attività dell’Unrwa (l’acronimo sta per United Nations Relief and Work Agency for Palestine Refugees in Near East).

Il capo dell’agenzia, lo svizzero Philippe Lazzarini, aggiunge che riterrà penalmente responsabile qualsiasi dipendente coinvolto in atti di terrorismo: una affermazione che non smentisce le accuse ma che in qualche modo cerca di smarcare l’Unrwa nel suo complesso, rispondendo così anche all’Unione Europea, che attende i risultati della indagine Onu e che da ben prima del 7 ottobre ha dichiarato che Hamas è una organizzazione terroristica.

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Ma questo non basta ai paesi che finora hanno pagato salato il conto di chi mantiene i campi rifugiati, dentro ai quali, secondo i dossier presentati da Israele al mondo, non ci si limita ad aiutare la popolazione civile, ma si addestrano militanti alla lotta armata e si preparano attentati sotto la copertura della azione umanitaria. A interrompere i finanziamenti sono stati finora Stati Uniti, Australia, Regno Unito, Canada, Finlandia, Francia, Germania, Austria, Romania, Giappone, Olanda, Nuova Zelanda, Norvegia, Svizzera e Italia. Paesi che rispettano i diritti umani, dove i governi rispondono in elezioni democratiche ai cittadini, e che non possono permettersi di ignorare una accusa così grave.

Il vizietto delle risoluzioni Onu anti Israele

Intanto nelle piazze europee le manifestazioni pro palestinesi agitano lo spettro del blocco delle attività dell’Unrwa come l’ennesima prova del “complotto sionista” ordito da Israele: è una tesi che non appartiene solo all’estremismo fondamentalista ma che nel lessico ha radici ben più antiche e profonde, e che è riecheggiata più volte nelle risoluzioni Onu contro Israele. Finora ammontano a 69 le condanne del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite nei confronti dello Stato ebraico (e per altre 29 volte la votazione è stata bloccata dal veto opposto dagli Stati Uniti).

Secondo i dati pubblicati del gruppo di monitoraggio UN Watch, solo nel solo l’Assemblea generale dell’Onu ha approvato 15 risoluzioni contro Israele a fronte delle 13 risoluzioni critiche verso altri paesi. La Russia è stata oggetto di 6 risoluzioni che condannano la sua invasione dell’Ucraina. Corea del Nord, Afghanistan, Myanmar, Siria, Iran e Stati Uniti (per l’embargo su Cuba) sono stati criticati da una risoluzione ciascuno. Altri paesi caratterizzati da pessime performance in fatto di diritti umani, invece, non sono stati oggetto di alcuna risoluzione di condanna.

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Complessivamente, dal 2015 l’Assemblea generale dell’Onu (dove, diversamente che nel Consiglio di sicurezza, non esiste diritto di veto) ha adottato 140 risoluzioni che criticano Israele per le sue politiche verso i palestinesi e i paesi vicini, più altri presunti abusi. Nello stesso periodo, lo stesso organo delle Nazioni Unite ha approvato 68 risoluzioni contro altri paesi del mondo.

La risoluzione votata a dicembre

La più recente risoluzione anti-israeliana è quella che è stata votata dall’Assemblea a dicembre, dopo quattro tentativi andati a vuoto al Consiglio. Una risoluzione che chiedeva il cessate il fuoco nella Striscia di Gaza ma che, come ha detto l’ambasciatore italiano Maurizio Massari motivando l’astensione dell’Italia, «mancava di tre elementi importanti: la condanna inequivocabile e senza ambiguità degli attacchi di Hamas nei confronti di civili israeliani innocenti, il diritto a difendersi di ogni Stato sotto attacco, in questo caso Israele, e infine il fatto che non si menziona il rilascio immediato e incondizionato degli ostaggi».

Dati che lasciano il campo solo a due interpretazioni possibili: o davvero Israele è il paese che da solo vìola i diritti dell’uomo più di tutto il resto del mondo, oppure lo Stato ebraico ha qualche ragione quando accusa a sua volta l’Onu di pericolose ambiguità.

Arafat, ramoscello di ulivo e Kalashnikov

E brucia ancora il marchio di infamia chiaramente espresso nel 1975 dall’Assemblea generale dell’Onu, con la risoluzione 3379, in cui si sanciva che «il sionismo è una forma di razzismo e di discriminazione razziale». Una dichiarazione che rimase agli atti per 16 anni: fu cancellata solo nel 1991 quando cominciò a farsi strada il clima di dialogo che portò ai (disattesi) accordi di Oslo. Ma per sedici anni la condanna del sionismo, cioè della esistenza stessa di Israele, bollato come Stato razzista, è risuonata come la giustificazione degli attacchi e delle discriminazioni nei confronti dello Stato ebraico.

Lo aveva capito l’allora ambasciatore israeliano all’Onu, che stracciò pubblicamente la risoluzione: «Per noi, popolo ebraico, questa risoluzione è fondata sull’odio, sulla falsità e sull’arroganza ed è priva di qualunque valore morale o legale. Per noi, popolo ebraico, questo non è altro che un pezzo di carta e noi lo tratteremo così». Ma quel pezzo di carta non era l’unico, non era il primo e non sarà l’ultimo.

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Arafat al Palazzo di vetro

Il leader palestinese Yasser Arafat, un anno prima, il 13 novembre 1974, si era presentato al Palazzo di vetro a New York e aveva parlato ai delegati dell’Onu mostrando un ramoscello di ulivo e il fodero di un Kalashnikov, il fucile d’assalto divenuto simbolo della lotta armata palestinese e dell’estremismo islamico, che ancor oggi campeggia nella bandiera di Hezbollah.

Arafat parlò all’Assemblea generale dell’Onu e la sua Olp ottenne il riconoscimento ufficiale del massimo consesso internazionale soltanto pochi giorni dopo aver ottenuto quello della Lega araba, paragonando «l’invasione ebraica della Palestina e le azioni dello Stato di Israele» all’apartheid e al colonialismo, accostando la causa palestinese alle guerre di liberazione antimperialiste. «Oggi sono venuto con un ramoscello di ulivo e un fucile da combattente per la libertà. Non lasciate che il ramoscello d’ulivo cada dalla mia mano», fu la conclusione del discorso.

Il doppio standard sui diritti umani

Accuse di razzismo, apartheid, colonialismo, appelli alla lotta di liberazione, offerta di pace mescolata alla minaccia del terrorismo internazionale: sono costanti che hanno segnato la storia degli ultimi cinquant’anni anni in Medio Oriente, e via via marcato il passo di un atteggiamento dell’Onu contraddistinto, secondo Stati Uniti e Israele, da una forte ambiguità. Ne è traccia proprio il doppio standard utilizzato nelle risoluzioni per il mancato rispetto dei diritti umani: Israele viene condannato e isolato mentre l’Iran ha presieduto lo scorso anno il forum dell’Onu sui diritti umani, organizzato dalla commissione preposta al tema di cui fa parte anche l’Arabia Saudita. Nello stesso tempo Iran e Arabia Saudita venivano messi sotto accusa per il trattamento riservato alle donne e l’applicazione della pena di morte.

Tutto questo grava come un macigno sulle relazioni tra Israele e il massimo consesso internazionale, a maggior ragione dopo il 7 ottobre, quando le donne israeliane hanno dovuto lanciare un appello al mondo intero affinché fosse cambiato il contenuto del messaggio pubblicato da UN Women (l’ente Onu per l’uguaglianza di genere), poiché nel testo originale si condannava il massacro ma senza nominare Hamas, limitandosi a proclamare che tutte le donne, israeliane e palestinesi, hanno il diritto di vivere in pace.

Le donne violate (e ignorate) e il processo per genocidio

Allison Kaplan Sommer, giornalista di Haaretz, quotidiano della sinistra israeliana, che ha lavorato per dodici anni nella commissione delle Nazioni Unite contro ogni forma di discriminazione nei confronti delle donne, ha dichiarato di sentirsi «completamente tradita dalle organizzazioni dei diritti delle donne con cui ho lavorato per anni che hanno fallito nel condannare – o perfino nel riconoscere – lo stupro, il rapimento e altre atrocità commesse da Hamas il 7 ottobre. Oltretutto, i crimini, diversamente dalle violenze sessuali dei precedenti conflitti, erano stati filmati dai terroristi di Hamas e trasmessi sui social, così che l’orrore era subito emerso».

«L’Onu ha la missione di proteggere le donne dalla violenza, di denunciare quando ci sono stupri», ha insistito la cronista di Haaretz, «ma riguardo a quello che hanno subìto le donne israeliane c’è stato un completo silenzio». E restando in silenzio le Nazioni Unite «non soltanto discriminano le donne israeliane, ma danneggiano tutto il sistema perché perdono credibilità». «Believe Israeli women», “credete alle donne israeliane”, divenne lo slogan delle femministe israeliane.

Proprio nelle scorse settimane il massimo organo giudiziario della dell’Onu, la Corte internazionale di Giustizia, ha accettato di discutere l’accusa presentata dal Sudafrica (con il sostegno dell’Iran) contro Israele. La parola questa volta è “genocidio”, un’accusa che da sola bolla e potenzialmente delegittima come mai in passato lo Stato ebraico. Un’accusa finora mai sollevata contro nessun altro Stato, e per di più una fattispecie di reato coniata proprio per definire la Shoah. Così lo Stato ebraico nato dopo l’Olocausto siede ora sul banco degli imputati dell’Onu come l’unico stato genocida del mondo. E le parole dell’accusa contro il sionismo sono le stesse che hanno accompagnato secoli di propaganda antisemita.

QOSHE - Terroristi nell’agenzia Onu per i palestinesi: uno scandalo ma non una sorpresa - Giancarlo Giojelli
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Terroristi nell’agenzia Onu per i palestinesi: uno scandalo ma non una sorpresa

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01.02.2024
Philippe Lazzarini, commissario dell’Unrwa, l’agenzia Onu per i profughi palestinesi (foto Ansa)

Lo scandalo che ha coinvolto l’Unrwa avrà «conseguenze catastrofiche per la popolazione di Gaza», recita la dichiarazione dei responsabili di tutti gli organismi delle Nazioni Unite. Quindici paesi, tra cui l’Italia, hanno infatti sospeso i finanziamenti – in totale sono un miliardo e quattrocento milioni di dollari l’anno – alla agenzia dell’Onu che, con 13 mila dipendenti, si occupa dei programmi di soccorso, sviluppo, istruzione, assistenza sanitaria, servizi sociali e aiuti di emergenza ai cinque milioni di rifugiati palestinesi che vivono a Gaza, in Cisgiordania, Libano, Siria e Giordania.

L’accusa che ha portato a interrompere il flusso di denaro che da settant’anni anni finisce nelle casse dell’organizzazione è pesantissima. Tra i terroristi che il 7 ottobre scorso hanno massacrato 1.200 israeliani, violentato donne, tagliato le teste a bambini in culla, rapito oltre duecento civili ebrei, c’erano almeno dodici dipendenti della agenzia Onu.

Accuse che non si possono ignorare

Il segretario generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, conferma che 12 membri della agenzia sono stati licenziati ed è stata aperta una inchiesta, ma lancia un allarme: l’interruzione dei finanziamenti porterà alla paralisi delle attività dell’Unrwa (l’acronimo sta per United Nations Relief and Work Agency for Palestine Refugees in Near East).

Il capo dell’agenzia, lo svizzero Philippe Lazzarini, aggiunge che riterrà penalmente responsabile qualsiasi dipendente coinvolto in atti di terrorismo: una affermazione che non smentisce le accuse ma che in qualche modo cerca di smarcare l’Unrwa nel suo complesso, rispondendo così anche all’Unione Europea, che attende i risultati della indagine Onu e che da ben prima del 7 ottobre ha dichiarato che Hamas è una organizzazione terroristica.

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