L’ex presidente del Consiglio Mario Draghi (foto Ansa)

Mario Draghi nel suo discorso programmatico esprime una reazione e adattamento a quella che è la nuova politica internazionale degli Stati Uniti e lo condisce con qualche idea di riformismo istituzionale. La politica americana potrà essere più o meno assertiva da novembre, a seconda che alla Casa Bianca venga confermato Joe Biden o ritorni Donald Trump, ma se nel metodo o nello stile la Casa Bianca può variare a seconda dell’inquilino, la linea fondamentale di politica internazionale resterà la stessa.

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Sarà infatti una politica in cui l’impero americano chiede agli alleati, europei, di fare di più nel campo della difesa, di reggere un nuovo ordine commerciale della globalizzazione che oggi torna a fondarsi su una riterritorializzazione del capitalismo. Un sostanziale accorciamento delle catene del valore e dunque un modello protezionista: profondamente diverso da quello degli ultimi trent’anni fondato sull’export e le catene del valore lunghe dell’èra che ci siamo appena lasciati alle spalle. In questo nuovo modello i Paesi Ue devono poter contare su una domanda interna più forte rispetto a un’economia basata sulle esportazioni.

La trasformazione dell’Ue che vuole Draghi

Draghi traspone tutto questo nel suo discorso europeista, aggiungendoci il completamento della riforma dell’integrazione dell’Ue, come quella del mercato di capitali, come un uso più sostanziale degli aiuti di stato, superamento della disciplina della concorrenza che oggi non è più attuale perché sfavorisce i processi di diffusione di campioni europei (ad esempio su difesa ed energia). Dunque l’ex premier ha, in qualche modo, consegnato un messaggio in bottiglia dagli Stati Uniti, essendo lui una personalità inter-atlantica, suggerendo ai leader europei la versione di adattamento a questo nuovo modello che gli americani stanno costruendo.

Mario Draghi, oltre che uomo di collegamento tra Washington e Bruxelles, è anche persona perspicace e di buon senso. In tutta la sua carriera ha mostrato la capacità di adattarsi a nuovi contesti senza ideologie rigide, caratteristica che gli ha permesso di governare in tempi diversi istituzioni differenti. Oggi ciò che propone è parte di una trasformazione dell’Unione Europea che però è incompleta da molto tempo. Si prenda il mercato dei capitali e l’Unione bancaria mai completati per volontà politica e sfiducia reciproca dei principali paesi europei. Lo stesso può darsi della difesa dal fallimento della CED ad oggi. Purtroppo su carta le idee possono essere condivisibili, ma poi è la politica a determinarne la realizzazione.

La premier italiana Giorgia Meloni in conferenza stampa a Lampedusa con la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, 17 settembre 2023 (foto Ansa)

Quanto di ciò che indica Draghi è realizzabile?

E la politica europea, inclusa quella in cui Draghi ha operato con successo, ha sempre fallito nel fare un passo in avanti. Ciò perché la strada scelta è sempre stata quella economica-funzionale, una via che prima o poi si esaurisce se non sorretta dalla legittimazione politica. E, piaccia o meno, oggi gran parte della legittimazione politica, in termini democratici, fiscali e simbolici, risiede ancora negli Stati nazionali. Dunque quanto di ciò che viene indicato da Draghi è realizzabile? Un maggior coordinamento sulla difesa è senza dubbio possibile sul piano degli acquisti e della produzione di armamenti dei principali gruppi industriali così come le regole comunitarie, spesso demenziali, sulla concorrenza possono essere cambiate.

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Mentre altre riforme di stampo più politico – il superamento del potere di veto dei governi ad esempio – sembrano difficili da realizzare. Lo stesso vale per gli investimenti green: dal testo di Draghi è evidente che questi non servano a cambiare il pianeta ma a rilanciare consumi e domanda interna dell’Ue, tuttavia non si possono non considerare le implicazioni socio-politiche che questi generano.

Una spirale da cui è difficile uscire

Gran parte dell’elettorato europeo è oramai spaventato da riforme dirigiste e calate dall’alto perché spesso queste significano un turbamento della quiete e un depauperamento del patrimonio personale dei cittadini senza avere troppi benefici in cambio. D’altronde perché investire per ristrutturare la casa e cambiare l’auto se chi se ne avvantaggia di più sono i produttori cinesi? Perché impiccarsi a standard, regole e obiettivi costosi per tutti in nome della lotta al cambiamento climatico se il resto del mondo non lo fa? È la domanda legittima che gran parte della popolazione si pone prima di lasciar carta bianca ai governanti.

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Dunque, ancora una volta, Draghi fornisce alla politica impulsi tecnocratici. È il suo ruolo e nessuno si aspetta altro da chi non si è mai impegnato nella lotta politica, ma la democrazia si regge sul consenso e sulla legittimità. Senza una costituzione europea che chiarifichi le competenze dell’Ue e dia un corpo politico all’Europa, invero molto difficile da realizzare, gran parte delle riforme draghiane rischiano di infrangersi sulle comprensibili resistenze politiche dei popoli e degli Stati.

Chi potrebbe lavorare al cambiamento è proprio la classe politica e di governo europea che però è così imbelle da plaudere alla fustigazione pubblica che lo stesso Draghi le impone. Una scena preoccupante perché Bruxelles ricorda sempre più Roma: si plaude al tecnocrate, si accolgono con giubilo i suoi suggerimenti, magari si conferisce a questo un ruolo e poi, quando c’è da decidere e realizzare, non si è capaci per mancanza di consenso, coraggio o forza politica. Una spirale da cui è difficilissimo uscire.

QOSHE - Per una super Europa gli impulsi tecnocratici di Draghi non bastano - Lorenzo Castellani
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Per una super Europa gli impulsi tecnocratici di Draghi non bastano

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22.04.2024
L’ex presidente del Consiglio Mario Draghi (foto Ansa)

Mario Draghi nel suo discorso programmatico esprime una reazione e adattamento a quella che è la nuova politica internazionale degli Stati Uniti e lo condisce con qualche idea di riformismo istituzionale. La politica americana potrà essere più o meno assertiva da novembre, a seconda che alla Casa Bianca venga confermato Joe Biden o ritorni Donald Trump, ma se nel metodo o nello stile la Casa Bianca può variare a seconda dell’inquilino, la linea fondamentale di politica internazionale resterà la stessa.

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Sarà infatti una politica in cui l’impero americano chiede agli alleati, europei, di fare di più nel campo della difesa, di reggere un nuovo ordine commerciale della globalizzazione che oggi torna a fondarsi su una riterritorializzazione del capitalismo. Un sostanziale accorciamento delle catene del valore e dunque un modello protezionista: profondamente diverso da quello degli ultimi trent’anni fondato sull’export e le catene del valore lunghe dell’èra che ci siamo appena lasciati alle spalle. In questo nuovo modello i Paesi Ue devono poter contare su una domanda interna più forte rispetto a un’economia basata sulle esportazioni.

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