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L’omicidio di Giulia Cecchettin ha avuto un impatto sull’opinione pubblica molto rilevante. Non poteva che essere così, anche perché generalmente i femminicidi si palesano immediatamente per quello che sono: la forza bruta dell’uomo che, perso il “possesso” della propria moglie, compagna, amante, si trasforma nel più implacabile dei nemici. Amore e morte. Come se le due parole fossero corrispondenti. In questo caso, l’emotività popolare, sempre “coccolata” dai “media”, è stata “ingannata” dalla scomparsa dei due giovani per un’intera settimana, dando l’impressione che stessimo assistendo ad un’altra narrazione.

Il tragico epilogo ha ovviamente suscitato un’ondata di empatia non solo nel mondo dell’informazione, ma nella gente comune, sui social, in ogni consesso popolare. Come è possibile intervenire per rimediare, prevenire fenomeni di questo tipo? Qual è la risposta alla domanda che questo episodio rappresenta come paradigma della modernità? Servono, come dicono molti, specialisti che entrino nelle scuole per educare alla civile convivenza? O per superare la cultura “patriarcale”?

Perché non sopprimere?

Ora, sull’onda emotiva tutto può essere concepito, ma rimandare ogni volta a qualcosa di “terzo”, ad un soggetto capace di risolvere ogni problema (come se stessimo discutendo di un problema tecnico per cui lo specialista diviene il taumaturgo in grado di trovare soluzioni e risposte) rappresenta un’idea nichilista. Il punto, vero e difficile, proprio perché coinvolge tutti noi, sta nel tentativo di andare alla radice di questo problema. Perché la domanda non può che essere autoriflessiva. Non è che anche io, anche ciascuno di noi, ho dentro di sé la medesima radice di possesso, che poi non esplode e non si tramuta in un male assoluto, come nel caso dei femminicidi, ma che determina comportamenti e visioni? Questa matrice di dominio, volontà di ghermire l’altro e di volerlo piegare a quello che voglio io, anziché riconoscerlo nella sua unicità, non è un male tanto diffuso nella società secolarizzata?

Questo è l’aspetto drammatico e insondabile di fronte al quale dobbiamo stare, perché questo baratro tenebroso ce lo abbiamo dentro tutti. Ed è solo una educazione e una coscienza matura di sé che ci rende capaci di rispettare la vita dell’altro. Altrimenti, se tu affermi in maniera egoistica la tua idea, il tuo desiderio e l’altro non vi corrisponde, perché non dovresti sopprimerlo? Questo è il medesimo schema della violenza in politica. Tu non scegli la violenza perché riconosci che c’è un valore nell’altro che è più grande, che è sacro e inviolabile quindi fa argine a quello che istintivamente saresti portato a fare.

Il fondamento del riconoscimento della dignità dell’altro ha bisogno di un legame trascendente per essere veramente solido. Io riconosco la dignità sacra e inviolabile della persona umana perché identifico che quel valore, va al di là della sua possibile “cosificazione” in virtù di una preziosità infinita, che è “immagine e somiglianza di Dio”. Questa consapevolezza, che fede e ragione mi offrono, permette di giungere alla consapevolezza che non posso disporre dell’altro, perché l’altro non l’ho fatto io. Come io non mi son fatto da me. Non posso disporre neanche di me stesso.

Sacralità della vita

È per questo che l’altro fatto drammatico della bambina inglese lasciata morire in ospedale dai medici, pone in evidenza un altro punto essenziale. Della vita dell’altro non posso disporre io e neppure lo Stato. Esiste una dimensione sacra dell’altro e se tu togli alla vita questa dimensione, inesorabilmente, la mercifichi. Per cui chi ha più potere può disporne. La vera risposta ai femminicidi, come all’ondata di violenza dilagante, è un’educazione al sacro, alla dimensione inviolabile della vita che riguarda innanzitutto ciascuno di noi. Bisogna educare a questa “inconoscibilità”: io devo rispettare la vita dell’altro anche quando non ne riconosco il “valore fattuale”, perché, persino se apparentemente non ne avesse più, come per gli stati vegetativi, rimane una vita sacra che non posso sopprimere a mio piacimento, né per risparmiare costi, né perché la sua presenza turba le nostre coscienze.

Quella che va messa in campo dunque non è la delega a qualche specialista, ma è una comunità educante, che è fatta della famiglia, della scuola, della Chiesa, dell’associazionismo, di qualsiasi luogo di aggregazione. Questo tema non possiamo delegarlo agli specialisti perché non ci sarà mai alcuno in grado di surrogare ad una comunità di uomini che educa alla sacralità della vita.

QOSHE - Educare alla sacralità della vita - Raffaele Cattaneo
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Educare alla sacralità della vita

10 0
25.11.2023

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L’omicidio di Giulia Cecchettin ha avuto un impatto sull’opinione pubblica molto rilevante. Non poteva che essere così, anche perché generalmente i femminicidi si palesano immediatamente per quello che sono: la forza bruta dell’uomo che, perso il “possesso” della propria moglie, compagna, amante, si trasforma nel più implacabile dei nemici. Amore e morte. Come se le due parole fossero corrispondenti. In questo caso, l’emotività popolare, sempre “coccolata” dai “media”, è stata “ingannata” dalla scomparsa dei due giovani per un’intera settimana, dando l’impressione che stessimo assistendo ad un’altra narrazione.

Il tragico epilogo ha ovviamente suscitato un’ondata di empatia non solo nel mondo dell’informazione, ma nella gente comune, sui social, in ogni consesso popolare. Come è possibile intervenire per rimediare, prevenire fenomeni di questo tipo? Qual è la risposta alla domanda che questo episodio rappresenta come paradigma della modernità? Servono, come dicono molti, specialisti che entrino nelle scuole per educare alla civile convivenza? O per........

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